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Non sono sicura di come sia potuto succedere. Diventare grande, dico, e dovrei dire “adulta” ma quella è una parola che mi sentirete pronunciare esclusivamente nelle discussioni coi miei genitori  —assieme con “Ho quasi trent’anni”, concetto astratto altrimenti relegato al capitolo vade-retro-Satana/I-am-too-young-to-die della mia vita—. Diventare grande, dicevo, e trovarmi di colpo senza la spensierata incoscienza di quando ho “aperto” questo blog, sei anni fa.

“Sei anni fa” suona come un’era geologica, adesso. Potrei credere a chiunque venisse a raccontarmi che ancora c’erano i dinosauri, sei anni fa. Fino a sei anni fa non avevo viaggiato granché e il pianeta terra mi pareva immenso, e soprattutto mi sembrava di avere tutto il tempo del mondo a mia disposizione. Non avevo vissuto granché, fino a sei anni fa.

Poi è successo che mi sono trasferita in Danimarca, prima per sei mesi e poi per tre anni; è successo che mi sono trasferita in Svezia, poi, per sei mesi che sono diventati un anno e mezzo e chissà quanto ancora, in futuro. È successo che mi sono laureata, ho iniziato e finito un dottorato di ricerca che mi ha insegnato molto di più su di me che non sui sensori in fibra ottica, che il mondo mi s’è ristretto davanti a forza di salire e scendere dagli aerei, che il cuore mi s’è allargato a dismisura a forza di prestare il mio corpo ai sentimenti, come fosse un campo di battaglia, a forza di andare in frantumi mille volte e ogni volta raccogliermi da terra e ricostruirmi, intera e funzionante e forse solo un pelo meno aggraziata ma più cauta. È successo che i miei genitori stanno invecchiando senza che nessuno mi abbia mai chiesto il permesso, che i miei nipoti crescono senza che io sia presente nella loro vita, che la mia famiglia sta imparando a fare a meno di me, così come io ho imparato a fare a meno di loro (e non mi abituerò mai, invece, al senso di privazione che le parole fare a meno mi provocano ogni stramaledettissima volta). Che il concetto di “casa” ha cambiato forma non so più quante volte, prima era Brisighella e poi Bologna e poi Copenhagen e adesso Stoccolma, oppure ovunque nel mondo fintanto che V. mi è accanto. Non è più fatto di mattoni e finestre e comodini, è fatto di persone, di serate passate a imbiancare le pareti del nuovo appartamento, di telefonate internazionali alle tre del mattino e di pizza take-away alla fine di una lunga giornata di lavoro.

Sono successe un sacco di cose, in questi ultimi sei anni. Sono diventata grande, l’anagrafe dice che non ho più scuse per non usare la parola “adulta”, né per illudermi di essere libera di improvvisare la mia vita giorno per giorno, senza uno straccio di progetto per il futuro.

Non so bene com’è che oggi sono tornata a scrivere qui, in un blog iniziato da una me stessa che è a tutti gli effetti un’altra persona. La sensazione è la stessa del tornare nell’appartamento di Copenhagen, dopo più di un anno di assenza: ne conosco ogni angolo eppure mi sento un’estranea. Non fossi mancata così a lungo, forse avrei potuto farle crescere con me, queste pagine.

Dico a me stessa che dovrei chiuderlo, questo blog, perché non si merita una disertrice per padrona di casa. Perché ho altri blog/tumblr/blablabla e una vita a cui pensare, e come diceva Tenco, quando sono felice esco. E adesso sono felice. Ho il cuore che batte accelerato la maggior parte del tempo, e per la prima volta non mi pare poi così strano che così tanti abbiano avuto problemi cardiaci, nella mia famiglia —e cos’è il cuore se non una macchina idraulica, destinata a rompersi a lungo andare, specie se sovraccaricata?—, eppure sento di essere al mio posto, per la prima volta da anni.

Cancellarlo, questo blog, non credo di averne la voglia. Resterà come una riga di matita nel muro, con il mio nome e la mia età, Anna Chiara a Un po’ meno di “Ho quasi trent’anni“, con la quale tornerò a confrontare la mia altezza, di quando in quando, sorridendo di quanto sono cresciuta.

[disclaimer: questo post è anche un po’ colpa della fede, siatene consapevoli]

praticamente ventotto anni per capire che:
la vita è tutta una questione di saper trovare il giusto equilibrio tra l’améliepoulainismo e il pippicalzelunghismo.

(mamma, babbo, scusate: so che speravate in una figlia intelligente)

per quanto mi riguarda, ho notato una certa attrazione di gravità verso l’améliepoulainismo, che poi sarebbe la tendenza a cercare di sorprendere le persone che, loro malgrado, ci garbano, senza aver mai the guts per andar lì da loro e dire, Senti, pollo, se ti ho riempito la buchetta delle lettere di cioccolatini non è perché temevo che le tue bollette avessero una crisi ipoglicemica, non credi?, tendenza che, credete a me, comporta un notevole dispendio energetico, e in generale non porta mai a niente di buono. ho le prove. quindi, bona, onde evitare possibili ricadute (di stile), mi sono data al pippicalzelunghismo, vale a dire che i cioccolatini a ‘sto giro me li mangio io, e l’amélie poulain che, pare, si nasconde dentro ogni donna adulta la tengo lì bella stirata in un cassetto, sai mai che un giorno possa servire di nuovo.

comunque. tutto ‘sto cappello introduttivo (che non è colpa della fede) non c’azzecca poi molto con quello che vi voglio dire, e cioè che mi sono trasferita a stoccolma, però siccome pippi långstrump è svedese (all’anagrafe pippilotta viktualia rullgardina krusmynta efraimsdotter långstrump – scommetto che non lo sapevate), e siccome per preparami pisssicologicamente alla svezia su facebook mi son messa la faccia e il cognome di pippi (e un mio collega il giorno dopo mi ha chiesto se avessi sposato uno svedese), e siccome per il mio farewell party mi hanno regalato il dvd di pippi che fa il farewell party, e siccome un mio amico mi ha detto che pippi, in fondo, sono io (muori-amélie-muori), ecco spiegato il perché io continui a perdere il vostro tempo raccontando di tutto tranne che della svezia.

che poi, a ragion di logica, io dovrei fare annika settergren, mica pippi.

stoccolma, dicevamo. a stoccolma parlano una lingua che pare la versione sarda del danese (senza rospo in bocca, sia lodato il cielo), e però almeno pronunciano tutte le lettere, più o meno come si scrivono (sia lodato il cielo, again). oggi parlavo con un turco che vive qua da trent’anni e praticamente non parla inglese, e alla fine per farmi capire ho dovuto azzardare un danese pronunciato male (cioè peggio di quando cerco di pronunciarlo bene). pare abbia funzionato.
per ora la parte migliore della prima settimana svedese è la mia padrona di casa nonché coinquilina, una donna che sarebbe davvero squisita se mi permettesse di fare la doccia la mattina, di usare il bidone della spazzatura in cucina senza dover tenere i rifiuti in camera (!!!) e se non mi avesse da poco comunicato di voler vendere la casa il prima possibile (notare che mi ha fatto un contratto di affitto fino a settembre, ma vabbe’). mi ha messo in camera tre piatti, una forchetta, un cucchiaio, un coltello, due bicchieri e uno strofinaccio, e poi mi ha informata del fatto che naturalmente ho il diritto di usare tutto quello che c’è in cucina, purché prima le io le chieda il permesso. devo chiedere il permesso anche per fare la doccia la sera, e comunque se dopo una certa ora voglio bere un bicchiere d’acqua la devo prendere dal bagno, perché i pennuti che tiene in cucina (qualunque cosa siano. sono uccelli e sono bianchi, e uno non sta mai zitto. vi basta?), se accendo la luce, si svegliano. poverini. ora, io ero partita con le migliori intenzioni, sono solo sei mesi e vuoi mettere che sbattimento trovare un’altra casa e basta portare un po’ di pazienza eccetera eccetera, ma dopo otto-giorni-otto sto già cercando un altro posto (e progettando di affogare i volatili di cui sopra). credo di aver battuto tutti i record.

che poi, questo gggenio di donna ha la lavatrice e l’asciugatrice in bagno ma ovviamente non le usa perché l’elettricità costa e tanto abbiamo la lavanderia condominiale aggrratis a piano terra e quindi perché pagare per farsi il bucato comodo comodo in casa quando puoi lavare i tuoi panni nella stessa lavatrice in cui li lavano tutti gli inquilini del condominio, prenotando il turno con una settimana di anticipo?

(ho ucciso per molto meno)

sto pensando di seguire il suggerimento di un mio amico e vendergliele, per poi sostituirle con delle repliche in cartone. pippi style, oh yeah.

per la cronaca, il suddetto essere umano di sesso femminile mi ha accolta raccontandomi di tutte le donne che conosce che sono state drogate e violentate nelle vicinanze, e lasciate o a) agonizzanti al freddo e al gelo senza vestiti, o b) a seminare saliva fuori dalla sua porta di casa. incoraggiante.

a proposito di cose brutte: in svezia le bevande con contenuto alcolico superiore al 3,5% si possono comprare esclusivamente nei systembolaget, vale a dire nei negozi del monopolio di stato. il che mi fa intuire cosa chiederò in dono ai miei visitatori di provenienza danese, quando sarà il momento (alla fede invece chiederò le gocciole, ché ormai è una tradizione).

al lavoro tutto bene, grazie. ho un it supporter che soffia sul computer per raffreddarlo, però è tanto caruccio e allora gli voglio bene lo stesso. anche quando le menate informatiche poi me le devo risolvere da sola, sì (fortuna che mi aiuta michele, va’, altrimenti non se ne esce). oggi tipo ho scoperto che (occhio che parte il momento un nerd per amico) esiste un’applicazione apple che viene installata di default dai software della creative suite adobe e che quando gli prendono i cinque minuti comincia a buttare per aria i dns e gli indirizzi ip e in conclusione la tabella di routing non assomiglia più a niente. son cose.

(fine del momento nerd. promesso)

come temperature non stiamo messi malissimo, dai. oggi tipo stavamo sui dieci gradi (sopra lo zero, sì. non male, dai, specie se pensate che un mese e mezzo fa faceva meno venticinque), e mi han detto che in settimana arriveremo addirittura a quindici.
poi ricomincerà l’autunno.

In principio era il verbo.
Il verbo andare, per la precisione, seguito a ruota dal complemento di moto a luogo, in questo caso: in Nuova Zelanda. E insomma, questo upgrade della Zelanda rappresentava il mio personalissimo piano criminale per il periodo di ricerca all’estero (che per la sottoscritta è un po’ come dire estero al quadrato) che dovrò svolgere il prossimo anno, piano ostacolato fin da subito dalle forze oscure del male, del malissimo e anche del peggio. Dal momento però che le mie abilità contrattuali sono a dir poco impareggiabili, nel giro dell’ultimo anno e mezzo la destinazione finale è stata modificata dapprima in Rochester, NY, poi in Ottawa, e infine in Stoccolma (le forze oscure del peggio, dicevamo, ché in Svezia in inverno le ore di luce solare son meno che in Danimarca, e fa pure più freddo. Mira, si chiama questa, altroché). Fortuna vuole che la partenza sia imminente: di questo passo tra un paio di mesi mi sarei ritrovata a dover andare a Roskilde, o a Århus. Bei posti, dico mica, però, insomma, anche no. E quindi, bòn, da marzo in poi mi trovate sulle isole di là, pallida forse un po’ più del solito ma di sicuro ben conservata.

Una volta eliminata la Nuova Zelanda dalla lista delle possibili destinazioni per il mio estero^2 (pare non facciano NIENTE di quello che serve a me, ‘sti kiwi, e il mio capo purtroppo non ha appoggiato la mia idea di chiamare un’università neozelandese a caso e dare loro un anno e mezzo di tempo per diventare i migliori al mondo nel mio campo, così da fornire alla sottoscritta un’ottima scusa per andare a lavorare presso di loro), ho quindi inserito la NZ in cima alla lista delle destinazioni per le mie vacanze di Natale (no, infatti non sono una persona testarda e zuccona, io) . Manco a dirlo, il mio personalissimo piano criminale è stato ostacolato fin da subito dalle forze del male, del malissimo e del peggio (nella fattispecie, mio padre con l’elenco delle figlie in una mano e il bianchetto nell’altra, in caso non mi fossi presentata a tavola con loro il giorno di Natale), ma almeno questa volta il ripiego era l’Australia, dal ventisette dicembre fino a scongelamento osseo ultimato. Per la cronaca (e dal momento che, si sa, io sono una donna dalle infinite risorse), il piano C era Barcellona, il piano D Atene, e i piani E, F e G erano Madeira, Malta e Istanbul. Inutile dire che ha vinto il piano H: Copenhagen.

Posso elencarvi almeno cinque ottime scuse per aver abbandonato il corso (ufficiale) di danese, nessuna delle quali contiene la parola pigrizia. I corsi ufficiosi continuano, con gli unici due danesi che ancora hanno la pazienza di starmi a sentire mentre massacro senza pudore alcuno la pronuncia della loro amata lingua. Uno di loro insiste nel dire che parlo bene il danese, e questo nonostante fosse con me il pomeriggio in cui per tre volte ho ordinato una fetta di torta di mele, e per tre volte la tizia del bar mi ha risposto che, no, non era una torta al cioccolato, quella: era una torta di mele. Lige præcis.
(Lo stesso danese sostiene che il tartufo sappia di aglio e le caldarroste di pop-corn. Ci siamo capiti)

Dopo secoli, ho ricominciato a giocare a pallamano. Il primo allenamento è andato benissimo: l’allenatrice mi ha letteralmente ignorata per i primi venti minuti, presentando alla squadra le altre nuove giocatrici e parlando solo ed esclusivamente danese per tutto il tempo, salvo poi ricordarsi della mia esistenza e venirmi a chiedere se ho anche un nome, oltre a un’espressione completamente spaesata (a tratti terrorizzata, oserei dire), e chiarire fin da subito che lei, quando allena, lo fa in danese, e se non mi va bene sono anche cavoli miei. Perfetto!, ho pensato: quale modo migliore per imparare una buona volta ‘sta benedetta lingua?! Del resto, nella vita di tutti i giorni a che ti serve saper ordinare una fetta di torta quando puoi dire portiere, pivot o rigore?

ok, esiste la possibilità concreta che il mio subconscio stia cercando di dirmi qualcosa. qualcosa che io, per la cronaca, preferisco non sapere. vado a letto la sera e penso, va ora in onda la vita onirica di annika, there once was a subconscious che adesso è in vacca totale, buona notte mondo e tanta fortuna. e va bene, passi la festa di laurea a casa dei miei (?) in stile prima comunione (??) in cui tutti arrivano, mangiano e poi se ne vanno senza nemmeno salutarmi (stronzi), mentre io intanto sto nello studio con una mia ex compaesana (???) con cui nemmeno andavo tanto d’accordo e che per l’occasione mi ha regalato un paio di occhiali da sole (????), e passi anche la brillante interpretazione data da un mio collega, e cioè un tentativo di far riconoscere la mia sessualità women-oriented (?????), che io stessa ho cercato di soffocare (il fatto che non andassi d’accordo con l’ex compaesana, e temo che il regalo dovesse significare il desiderio di uscire allo scoperto, di essere libera di amare chi voglio alla luce del sole, ma non mi ricordo bene), da parte dei miei genitori (location) e di tutte le persone che mi conoscono fin da bambina (prima comunione) — e vorrei dire: freud. chi era costui? (ma anche e soprattutto: collega mio caro, fortuna che non devi fare lo psichiatra per vivere) —. però, santo cielo, farmi sognare di star nuotando (che già…) attorno a un sottomarino (??????) che sta per venire colpito da un missile (???????) mi sembra sia decisamente troppo.

soprattutto perché io, nel sogno, vedo arrivare il missile (????????), e per allontanarmi più velocemente nuoto a rana.

(oh subconscio, che tu m’hai preso per una cogliona totale?)

è solo questione di tempo, presto o tardi qualcuno si deciderà a includere tra gli sport olimpici invernali la camminata su fondo innevato e ghiacciato con scarpa tremendamente inadatta. inutile che vi alleniate: la medaglia d’oro ha già il mio nome scritto sopra.

il mio collega finlandese dice che in confronto ai meno trentaquattro gradi (sticazzi) di tampere, qui da noi non fa neanche troppo freddo. il mio collega finlandese ha fatto il bagno nel mare ghiacciato, la settimana scorsa, e ne è uscito vivo. questo dovrebbe farvi capire un bel po’ di cose.

durante l’inverno più freddo degli ultimi, non so, centocinquant’anni (un numero chiaramente a caso, ma tanto io e la statistica non siamo mai andate d’accordo), son gelati i laghi vicino a casa mia. addirittura. ovviamente c’era solo una persona che, tra i pattinatori e i pupazzi di neve in mezzo al lago, s’è messa a urlare, uè, cammino sulle acque. vi lascio indovinare chi.

i danesi, comunque, non si lasciano certo scoraggiare dal freddo e dal gelo, e vanno in giro in maglietta a mezze maniche e senza giacca. ti guardano e dicono, non fa poi così caldo. eh beh, certo: anche don abbondio non era nato con un cuor di leone, in fondo. molti di loro sono anche convinti che la primavera inizi il primo di marzo, non si sa bene sulla base di cosa. io comunque ho deciso che non appena il termometro arriverà a sfiorare gli otto gradi (più otto gradi) dichiarerò ufficialmente cominciata l’estate.
non una grande rivoluzione, visto che probabilmente sarà già luglio.

e così ieri sera sono andata a sentire simonerossi. simonerossi è quello che quando scrive di musica siam tutti lì a fare sì con la testa e a citarlo nel tumblr e a pensare che quella roba lì vorremmo averla scritta noi, e quando invece non scrive di musica siam tutti lì a fare sì con la testa e a citarlo nel tumblr e a pensare che quella roba lì vorremmo averla scritta noi comunque. è anche andato a vedere se la luna è sempre la luna anche quando è girata strana, una volta, e pare si sia divertito. se non lo sapete, simonerossi suona in due gruppi diversi, uno dei quali ieri sera ha fatto un concerto in un posto molto carino che poi m’han detto che presto chiude, e la metà di concerto che ho visto io, quella centrale, è stata bella parecchio. simonerossi suona, in ordine di apparizione, il clarinetto, lo xilofono, la chitarra e l’ukulele, e quando le persone con cui ero in macchina io mi han chiesto, noi andiamo via, tu che fai? (secundum non datur, a quanto pare), simonerossi si era appena seduto alla tastiera. però magari era solo stanco e non la sa suonare per davvero. sai mai. quando simonerossi ha preso in mano l’ukulele un tipo vicino a me ha esclamato, ma che carina quella chitarrina con quattro corde!, e io mi son sentita un pelo meno ignorante, ma giusto un pelo.
simonerossi ha gli occhi così grandi che pare non gli stiano in faccia, e una a guardarlo ha l’impressione che tutta quella barba, le basette e i capelli troppo lunghi siano messi lì apposta per evitare che gli occhi gli scappino via di lato, sopra o sotto. sembra che parlino una lingua tutta loro, gli occhi di simonerossi, e infatti a un certo punto avrei voluto dirgli, zitto un attimo che non riesco a sentirti gli occhi. ma non ho detto niente.
simonerossi ha degli amici che usano ancora l’aggettivo “sburo”, che è una cosa che non sentivo più dai tempi del liceo. gliamicidisimonerossi mi hanno anche offerto una cedrata tassoni, altra cosa che l’ultima volta è stata al liceo, e dire che fino a un’ora prima neanche mi conoscevano. sono simpatici, gliamicidisimonerossi.
simonerossi racconta delle storie che quando comincia lo sai benissimo che se le sta inventando, e però a metà ti chiedi se per caso non siano vere e alla fine, poco prima che lui ti dica che era tutto finto, tu sei già lì che te lo immagini mentre vive l’episodio che sta raccontando. ci resti anche un pochino male, quando ti dice che non è vero niente, perché in fondo era una bella storia.
quando sono andata via e lui era seduto alla tastiera, avrei voluto fargli ciao con la mano e dirgli, arrivederci simonerossi, alla prossima, e però lui faceva come tutti i cantanti famosi che stanno sul palco a farsi applaudire e mica ti guardano mai: tengono gli occhi sempre chiusi e vedono solo la musica.

e almeno quest’anno non muore nessuno.

dopo il corso di danese ufficiale e il corso di danese ufficioso (il collega dirimpettaio che m’insegna una parola nuova tutti i giorni), ci mancava solo il corso di danese diversamente ufficioso, col commesso del supermercato accanto a casa che mi dà lezioni di everyday danish tra un codice a barre e l’altro.

– donna, devi impararlo ‘sto benedetto danese.
– eh, la fai facile tu. mica son nata con un rospo in gola come voialtri, io.
– ‘spetta mo’ che t’insegno io.

proprio vero che gli uomini non ci accettano mai per quello che siamo.

comunque. ieri ho ricevuto due mail di complimenti per aver fatto funzionare uno strumento che ancora non ho nemmeno iniziato a costruire. non ho capito se fossero mail di incoraggiamento oppure una demo dell’amore incondizionato che l’umanità tiene in serbo per me, nascosto bene da qualche parte (molto bene). nel dubbio, mi son fatta i complimenti anch’io.

mi han mandato una presentazione da sistemare (aggiungere un po’ di folklore qua e là, sterminare le animazioni powerpoint, che sono un castigo divino, raddoppiare la dimensione del file scegliendo accuratamente immagini con risoluzione abnorme, e via dicendo), per una lezione che devo fare a degli studenti delle scuole superiori. ora, son davvero poche le cose che mi danno fastidio sul serio. oltre alle animazioni ppt, dico. mi dà fastidio, per esempio, il fatto che la rapa rossa sia uno degli alimenti alla base della cucina tradizionale danese. le catene di sant’antonio mi danno fastidio, specie se con annesso file ppt in cui un’ampia gamma di gatti e cani e altre bestie di piccola taglia pretende di ricordarmi che amico è bello o amore è per sempre (ah, no, però. aspetta: solo il vero amore è per sempre, altrimenti non è amore. ah, ecco. certo. un po’ come dire che il latte è finito solo quando il cartone è vuoto, altrimenti non è finito. ci voleva un gatto, per capirlo). il comic sans (aka volevo essere divertente, giovane, accattivante), a maggior ragione se il testo è colorato, mi dà un fastidio che la metà basta. il mondo non ha alcun bisogno del comic sans: è ora che se ne renda conto.

come se tutto questo non bastasse, un professore ha cercato di vendermi suo figlio. no, anzi: me lo regalava proprio.

– ma tu finito il dottorato vuoi rimanere in danimarca per sempre?
(grazie per la fiducia, uomo, ma temo che prima o poi mi toccherà stendere gli zampetti, come si suol dire)
– non lo so ancora cosa farò, dopo.
– no perché potresti anche conoscere un danese e innamorarti e non volertene più andare.
– …
– ci sono tanti danesi che meritano, e magari sono ancora giovani e non sono sposati.
(e poi c’era la marmotta che incartava la cioccolata)
– …
– per esempio, mio figlio è un neuroscienziato che ha fatto il dottorato in california, mica una roba da niente, e io gli dico sempre che si deve trovare una donna e sposarsi, ma lui mica mi dà retta. non ne vuole proprio sapere.

il peggio è che il mio primo pensiero non è stato, bevi di meno. no, il mio primissimo pensiero è stato: almeno questo non è un ingegnere.
sopprimetemi.

ci siamo conosciute alle scuole medie, io e alessandra. andavamo, come tutti del resto, a scuola con le superga e le magliette comprate per noi dalle nostre mamme, piccoli capolavori di inguardabilità, con gli swatch e gli zaini invicta. con la tuta da ginnastica, se quel giorno c’era educazione fisica, e col cerchietto colorato in testa e i braccialetti portafortuna al polso o alla caviglia. erano gli anni in cui, quando i compiti erano troppi, toccava farli e basta, e col cavolo che i genitori andavano a protestare dagli insegnanti, gli anni in cui i compleanni li festeggiavamo coi compagni di classe, tutti nella stessa pizzeria. ci sembrava la cosa più bella del mondo.
eravamo in classe assieme, io e alessandra. io ero quella che parlava sempre troppo, lei quella che non parlava mai. però sapeva il dialetto romagnolo, lei, e io segretamente un po’ l’ho sempre invidiata, per questo.
due licei diversi, poi, e due università diverse. alla fine della laurea triennale lei ha deciso di partire, ha vissuto per un anno in belgio e poi si è iscritta a un corso di laurea specialistica a vienna. si è laureata, è partita alla volta del laos, del vietnam e della cambogia. fossi riuscita a laurearmi tre mesi prima, probabilmente sarei andata con lei. e invece. un bel giorno ci ha mandato una mail bilingue, a me e agli altri suoi amici sparsi per l’europa, per dire che non sarebbe tornata. non subito, almeno: aveva trovato casa e lavoro a vientiane, e l’abito tradizionale laotiano non le stava poi così male.
alessandra, quella che in classe non parlava mai.
alessandra, quella che secondo i suoi genitori non socializzava abbastanza.

le ho rotto le scatole per mesi, e adesso pare che io sia finalmente riuscita a convincerla a collaborare a questo blog, arricchendolo con i suoi racconti di viaggio, con i suoi pensieri e con qualsiasi altra cosa lei abbia voglia di condividere. spero davvero di potervela presentare, presto.

[…] sometimes being polite is worse than being not-polite, like the time Greg Feldman passed me in the hall at school and said, “Hey, Alma, what’s up?” and I said, “Finethankyouhowareyou?” and he stopped and gave me a look like I’d just parachuted down from Mars, and said, “Why can’t you ever just say, Not much“?

[Nicole Krauss, The History of Love]