Non sono sicura di come sia potuto succedere. Diventare grande, dico, e dovrei dire “adulta” ma quella è una parola che mi sentirete pronunciare esclusivamente nelle discussioni coi miei genitori —assieme con “Ho quasi trent’anni”, concetto astratto altrimenti relegato al capitolo vade-retro-Satana/I-am-too-young-to-die della mia vita—. Diventare grande, dicevo, e trovarmi di colpo senza la spensierata incoscienza di quando ho “aperto” questo blog, sei anni fa.
“Sei anni fa” suona come un’era geologica, adesso. Potrei credere a chiunque venisse a raccontarmi che ancora c’erano i dinosauri, sei anni fa. Fino a sei anni fa non avevo viaggiato granché e il pianeta terra mi pareva immenso, e soprattutto mi sembrava di avere tutto il tempo del mondo a mia disposizione. Non avevo vissuto granché, fino a sei anni fa.
Poi è successo che mi sono trasferita in Danimarca, prima per sei mesi e poi per tre anni; è successo che mi sono trasferita in Svezia, poi, per sei mesi che sono diventati un anno e mezzo e chissà quanto ancora, in futuro. È successo che mi sono laureata, ho iniziato e finito un dottorato di ricerca che mi ha insegnato molto di più su di me che non sui sensori in fibra ottica, che il mondo mi s’è ristretto davanti a forza di salire e scendere dagli aerei, che il cuore mi s’è allargato a dismisura a forza di prestare il mio corpo ai sentimenti, come fosse un campo di battaglia, a forza di andare in frantumi mille volte e ogni volta raccogliermi da terra e ricostruirmi, intera e funzionante e forse solo un pelo meno aggraziata ma più cauta. È successo che i miei genitori stanno invecchiando senza che nessuno mi abbia mai chiesto il permesso, che i miei nipoti crescono senza che io sia presente nella loro vita, che la mia famiglia sta imparando a fare a meno di me, così come io ho imparato a fare a meno di loro (e non mi abituerò mai, invece, al senso di privazione che le parole fare a meno mi provocano ogni stramaledettissima volta). Che il concetto di “casa” ha cambiato forma non so più quante volte, prima era Brisighella e poi Bologna e poi Copenhagen e adesso Stoccolma, oppure ovunque nel mondo fintanto che V. mi è accanto. Non è più fatto di mattoni e finestre e comodini, è fatto di persone, di serate passate a imbiancare le pareti del nuovo appartamento, di telefonate internazionali alle tre del mattino e di pizza take-away alla fine di una lunga giornata di lavoro.
Sono successe un sacco di cose, in questi ultimi sei anni. Sono diventata grande, l’anagrafe dice che non ho più scuse per non usare la parola “adulta”, né per illudermi di essere libera di improvvisare la mia vita giorno per giorno, senza uno straccio di progetto per il futuro.
Non so bene com’è che oggi sono tornata a scrivere qui, in un blog iniziato da una me stessa che è a tutti gli effetti un’altra persona. La sensazione è la stessa del tornare nell’appartamento di Copenhagen, dopo più di un anno di assenza: ne conosco ogni angolo eppure mi sento un’estranea. Non fossi mancata così a lungo, forse avrei potuto farle crescere con me, queste pagine.
Dico a me stessa che dovrei chiuderlo, questo blog, perché non si merita una disertrice per padrona di casa. Perché ho altri blog/tumblr/blablabla e una vita a cui pensare, e come diceva Tenco, quando sono felice esco. E adesso sono felice. Ho il cuore che batte accelerato la maggior parte del tempo, e per la prima volta non mi pare poi così strano che così tanti abbiano avuto problemi cardiaci, nella mia famiglia —e cos’è il cuore se non una macchina idraulica, destinata a rompersi a lungo andare, specie se sovraccaricata?—, eppure sento di essere al mio posto, per la prima volta da anni.
Cancellarlo, questo blog, non credo di averne la voglia. Resterà come una riga di matita nel muro, con il mio nome e la mia età, Anna Chiara a Un po’ meno di “Ho quasi trent’anni“, con la quale tornerò a confrontare la mia altezza, di quando in quando, sorridendo di quanto sono cresciuta.